Intervista universitaria

Recentemente mi è stato chiesto di rispondere ad alcune domande per un lavoro universitario legato alla religione. Mi ha sorpreso la reazione estremamente positiva dell'intervistatrice alle mie risposte. Ho deciso di condividerle con semplicità.


  1. Come ti sei avvicinato alla religione e alla scelta di diventare prete?
  2. La dimensione spirituale personale non viene intaccata o influenzata da quella lavorativa?
  3. In che modo e in che misura la religione influisce sulle tue scelte di vita (al di fuori del lavoro)?
  4. Non hai paura che un giorno la dimensione religiosa possa venir meno e quindi non poter più esercitare la tua professione?
  5. La religione, in particolare il sacramento del sacerdozio, impone scelte di vita come ad esempio il celibato. Ti sei sentito o ti senti privato di alcune libertà?



1) Come ti sei avvicinato alla religione e alla scelta di diventare prete?

Sono cresciuto in una famiglia cattolica e l’aspetto religioso della vita ha sempre fatto parte della mia esistenza in modo naturale. Parenti e conoscenti mi raccontano che ho iniziato a dire a tutti che «volevo fare il prete» circa all’età di tre anni e la mia maestra dell’asilo conserva una registrazione su cassetta di questo mio desiderio espresso. Io ricordo di averlo sempre manifestato, di averne subito le conseguenze dai «bulli» della scuola media e di aver deciso di non più raccontarlo all’età del liceo che ho frequentato lontano da casa. Quel periodo mi ha permesso di mettere profondamente in discussione quell’idea che era in me fin da bambino per comprenderne la reale serietà e portata. Ricordo di aver cercato per anni altre possibilità di studi futuri, altre passioni, altre idee, ma ricordo anche che quella non se ne è mai andata e si è sempre ripresentata come l’unica sensata, l’unica adatta a me, l’unico vero desiderio. Di questo faccio una lettura spirituale alla luce del testo di Paolo nella lettera ai Filippesi «anche io sono stato conquistato [afferrato] da Cristo Gesù» (Fil 3,12). All’inizio della mia storia vocazionale c’è un’iniziativa esclusiva di Dio che mi mette su una strada che non ho cercato, non ho voluto, ma che percorsa si rivela bella e fatta su misura per me. La mia strada per essere veramente cristiano. Né migliore né peggiore di altre ma la mia.


2) La dimensione spirituale personale non viene intaccata o influenzata da quella lavorativa?

Un primo rischio è quello di ridurre i compiti e le missioni pastorali a mero lavoro da quantificare, soprattutto nelle nostre strutture che anche a livello economico chiedono risultati e calcoli. Il secondo rischio è quello di non prendersi del tempo (scusandolo con l’idea di non poterselo prendere) per curare la vita interiore e spirituale. Ma lavoro pastorale e vita spirituale non sono in contraddizione in quanto la vita del prete è molto diversa da quella monastica. La vita spirituale e di preghiera del prete si inserisce costantemente in quello che fa e da essa non può prescindere. Il prete vive la sua spiritualità giocando all’oratorio, preparando le omelie, visitando infermi, anziani e famiglie… Evidentemente però non devono mancare i momenti dedicati esclusivamente alla preghiera, alla meditazione e al rapporto personale con Dio, che devono essere quotidiani ma anche concentrarsi in alcuni momenti speciali dell’anno dedicati solo esse. D’altro canto il prete non può nemmeno immaginarsi come un operatore del sacro disponibile solo in orari d’ufficio ma deve piuttosto essere aperto all’imprevisto e all’emergenza spesso segni della provvidenza.


3) In che modo e in che misura la religione influisce sulle tue scelte di vita (al di fuori del lavoro)?

È molto difficile rispondere a questa domanda in quanto lavoro, fede e vita nel caso di un prete sono strettamente legati, più di qualunque altra realtà umana. Ho la fortuna però di vivere alcune attività al di fuori del ministero pastorale ordinario, nel mondo della scuola, dello scoutismo e altro in cui a chi mi circonda importa poco del mio essere prete e mi devo confrontare perciò con una realtà che mi giudica per gli aspetti umani e non per un ruolo precostituito. In queste realtà credo si riveli l’umanità segnata dalla vita di fede. Cerco di essere una persona che sa stare con gli altri, nell’ascolto, con cura e attenzione, mettendo a disposizione, tempo, serietà, conoscenze. «Stare con» in fondo potrebbe essere una traduzione moderna dell’Incarnazione.


4) Non hai paura che un giorno la dimensione religiosa possa venir meno e quindi non poter più esercitare la tua professione?

È un esperienza che ho già fatto. E grazie alla quale nutro grande rispetto per chi fa fatica, per chi non trova, per chi si sente perso. È capitato in modo serio durante i miei anni di studi nei quali tutto andava avanti per inerzia in modo costante e regolare, periodo in cui avrei potuto facilmente nascondere le difficoltà e inserirmi nella corrente della formazione senza che nessuno se ne accorgesse. Ma l’occasione di otto giorni di esercizi ignaziani mi permise il confronto con un padre spirituale che in modo assolutamente non invadente mi ha aiutato a dare serietà e peso alla questione. Non so dire come si è risolta. Ma è avvenuto. Credo che nella vita di una persona, anche in quella di un prete, queste realtà possano presentarsi e ripresentarsi. Il fatto di aver già vissuto questo e di sapere che può andare e venire, come anche osservare questo aspetto nella vita delle persone che mi chiedono consigli, mi aiuta anche a sperare di saperlo superare nuovamente.


5) La religione, in particolare il sacramento del sacerdozio, impone scelte di vita come ad esempio il celibato. Ti sei sentito o ti senti privato di alcune libertà?

Sinceramente non mi sento privato di nulla. Questo non significa che non ci siano difficoltà, che non possa sentire il peso di alcune scelte in particolari momenti o periodi. Ma la questione vera si pone proprio sulla scelta. Qualunque scelta implica anche una rinuncia, riconciliarsi con questo risolve molti conflitti. Uno sposo sceglie una moglie e rinuncia a tutte e altre, un curriculum di studi ne esclude molti altri, l’accettazione di un lavoro implica la rinuncia alle altre proposte. Come in questi casi possono non mancare i ripensamenti o i rimorsi, essi non mancano anche nella mia vita soprattutto nella forma delle ipotesi: «e se...?». Ma nella concretezza di ciò che vivo le scelte fatte restano quelle vere per me e che rifarei quotidianamente.

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